La cassa integrazione per addossare responsabilità politiche e sociali a chi lotta per la legalità e per la tutela ambientale e sanitaria?
Il colosso Eni, 122,22 miliardi di euro di fatturato, 78 mila dipendenti in tutto il mondo, alza il pugno sui dipendenti lucani nella periferia più estrema del suo impero, con un’operazione meramente strumentale, che ha anche un secondario e non meno importante scopo di contro-informazione. Col quale cerca di garantirsi una specie di immunità sociale e mediatica.
All’indomani dell’inchiesta della magistratura potentina sulla contraffazione dei codici per lo smaltimento dei rifiuti tossici e pericolosi prodotti al Cova di Viggiano, la società petrolifera italiana avvia le procedure per la messa in cassa integrazione di 430 dipendenti del centro oli lucano.
Che sia strumentale, lo si deduce anche dalle precisazioni della stessa magistratura, la cui azione giudiziaria è stata condotta proprio per non ostacolare lo svolgersi delle attività del Cova, al fine di consentire la normale caratterizzazione dei reflui.
La richiesta di cassa integrazione è l’ennesima dimostrazione dell’arroganza dell’Eni, che alla Basilicata ha restituito la milionesima parte di ciò che ha prelevato dal 1997, senza contare ciò che lascerà da bonificare dopo il depauperamento del territorio in atto. Una vera e propria prova di forza con la quale cerca di cavalcare e alimentare il disagio base di una regione alla quale vengono continuamente assegnati i primati negativi di disoccupazione, povertà ed emigrazione. A dimostrazione che al petrolio gli si dà un po’ troppo facilmente lo status immeritato di “oro nero”.
L’inchiesta, resa nota agli italiani per il subappalto clientelare di 2,5 milioni di euro al compagno dell’ex ministro Federica Guidi, poi costretta a dimettersi per l’emendamento a favore della Total, nella realtà ha il suo centro di gravità truffaldino nella gestione delle acque e dei fanghi di lavorazione delle attività estrattive e di raffinazione. Ai quali, nel loro viaggio verso lo smaltimento da Viggiano, in Val d’Agri, a Tecnoparco, in Valbasento, venivano assegnati codici errati per tipologia di smaltimento.
Rifiuti che l’Eni potrebbe anche smaltire in loco, con un efficace impianto mobile il cui progetto, di una società del gruppo Eni, la Sindyal, è però depositato e fermo dal 2013 all’ufficio compatibilità ambientale della Regione.
Forse perché l’impianto mobile, che è anche a basso impatto ambientale, avrebbe probabilmente avuto l’effetto collaterale di far scoprire l’assegnazione errata del codice 161002 ai rifiuti tossici e pericolosi, e avrebbe interrotto il flusso di rapporti con Tecnoparco?
L’azione di forza dell’Eni in Basilicata, contro i più deboli del ciclo produttivo del petrolio, avrebbe anche una lettura internazionale e strettamente legata ai bassi profitti attuali, dovuti a un valore di borsa del petrolio sotto le cinquanta euro a barile. La necessità dell’Iran di immettere sul mercato internazionale gas e petrolio in grosse quantità, perché sta uscendo da un lungo embargo commerciale, ha fatto fallire a Doha, in Qatar, l’accordo tra i Paesi Opec su una possibile riduzione della produzione mondiale di petrolio, al fine unico di rialzare il prezzo del barile e aumentare i profitti.
La congiuntura specifica, ha fatto sì che Eni si facesse due conti in tasca e con la “scusa ” del sequestro ha deciso di avviare la procedura per la Cig, per prendere con una sola fava i classici due piccioni: recupero dei profitti sulla pelle di quattro operai, fermando un impianto attualmente non molto remunerativo, e condizionamento mediatico per isolare chi si impegna nella denuncia sociale.
C’è da scommettere che nei prossimi mesi, quando il prezzo del barile tornerà a salire, Eni sbloccherà il tutto. E questo dimostrerebbe ulteriormente come le risorse estratte in Basilicata non siano destinate ai riequilibri del bilancio energetico della nazione, ma esclusivamente alla vendita per rimpinguare il solo bilancio aziendale. Contravvenendo anche a quanto ripetuto più volte dal Governo centrale in materia di risorsa energetica nazionale.
Mirella Liuzzi, M5S Camera dei Deputati
Vito Petrocelli, M5S Senato della Repubblica